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Visite guidate e passeggiate nei luoghi del Vajont
Era la notte del 9 ottobre 1963: un'ondata di 50 milioni di metri cubi d'acqua si è abbattuta su Longarone, Erto Casso e una manciata di altre frazioncine lungo l'asse del Piave, ai piedi delle Dolomiti Bellunesi, distruggendo completamente uno dei centri più popolosi della valle e uccidendo 1910 persone.
A più di 50 anni di distanza, Longarone esiste ancora, e così Erto Casso, grazie alla testardaggine e alla forza degli abitanti sopravvissuti, che si rifiutarono di lasciare le proprie case sul lago, a Erto, e tanto insistettero per ricostruire Longarone lì dov'era, al confluire di valli diverse, centro nevralgico dell'economia alpina del Bellunese. Anche la diga c'è ancora, perché l'onda provocata dal Monte Toc l'ha scavalcata, senza quasi scalfirla. La diga c'è ancora, ed è visitabile.
Salendo da Belluno verso Longarone, bisogna immaginare scomparse tutte le case che si incontrano dalla frazione di Faè in su. Eliminare tutti gli alberi, la strada, le fabbriche lungo il Piave e il Piave stesso. E sostituire valle e pendii con una piana limacciosa e opaca, silenziosa, un misto di melma, pezzi di montagna, resti di paesi: questo, più o meno, è il paesaggio che si trovarono di fronte i primi soccorritori la mattina del 10 ottobre 1963, il giorno dopo il Vajont. Oggi la valle che risale il Piave è un tripudio di verdi, stretta tra i costoni di montagne ripide e selvagge, scarsamente illuminate dal sole.
Longarone è un paese ricostruito – e ricostruito negli anni Sessanta: tanto cemento, poco fascino. Ma c'è chi ha tenacemente resistito, anno dopo anno, al cospetto della grande V grigia della diga, che sembra vegliare il nuovo centro dall'alto, minaccioso memento dell'incuria e della rapacità umana (perché Vajont, è un dato di fatto, fu una tragedia tutta umana, ben poco naturale). Anche solo per rispetto delle molte vittime, Longarone è da visitare.
Si entra nel vortice grigio di cemento che è la “nuova” chiesa, occorre soffermarsi qualche minuto davanti alla Madonna, bellissima, senza naso né mani, col volto di legno sfregiato e il vestito mangiucchiato dal disastro. Sta lì, dolorosa, a testimonianza del fatto che nemmeno l’arte più raffinata e commossa sa raccontare la vita come la vita stessa. Era la Maria della parrocchiale, prima dell’onda: l'hanno ripescata a Fossalta di Piave, a ottanta chilometri di distanza da Longarone.
Visitare il museo del Vajont, a due passi dalla piazza principale, è quasi d'obbligo. Si esce colmi di pensieri e immagini, e guardando in alto, i boschi e le crode della montagna sopra Casso, si vede la superficie livida della diga.
A Fortogna – qualche chilometro prima di Longarone – è possibile visitare il cimitero di Vajont, con i suoi cippi tutti uguali come i cimiteri di guerra americani e le statue silenziose e attonite, aggraziate.
Quindi salire,curva dopo curva, al di là del Piave, lungo la strada tortuosa che porta alla diga e che dalla provincia di Belluno conduce, dopo un paio di gallerie gocciolanti, alla provincia di Pordenone. La geografia della valle del Vajont è stata completamente sconvolta dalla costruzione della diga prima, poi dalla tragedia del '63. Un tempo c'era solo un torrente – il Vajont, appunto prati fertili e assolati, pascoli, mucche e contadini. Poi è venuto il lago, che si è mangiato piano piano campi e frutteti. Oggi il lago è piccolo piccolo, in fondo alla valle. Gran parte della sua superficie è stata riempita dalla frana che si è staccata dal monte Toc: e il bosco che ora sta a ridosso della diga è quello antico che sessant'anni fa frusciava sulle pendici del Toc.
Le visite guidate al coronamento della diga le organizza il Parco Naturale delle Dolomiti Friulane (http://www.parcodolomitifriulane.it/visite-guidate/percorso-coronamento-diga-del-vajont/): ce ne sono di brevi (durano una quarantina di minuti) e di più lunghe e complete, che in circa tre ore accompagnano nei luoghi (alcuni segreti) simbolo del disastro del Vajont. Dalla diga vera e propria, in bilico sull'orrido scrosciante, alla frana fiorita, che tra i sassi scomposti racconta storie antiche di ere e la storia più vicina a noi di un disastro annunciato.
La Redazione